Come potevo dormire? Era troppo poco eccitante dormire rispetto al pensare a ciò che avevo vissuto fino a poco prima: avevo vissuto per ventiquattr’ore in una bolla e seppur sapessi che non sarebbe durata a lungo, ho goduto ogni singolo momento. Eravamo ragazzi che provenivano da tutta Italia ritrovatisi per caso; e il caso in quel momento era stato proprio nostro amico. Eravamo felici con poco: parlavamo per le strade di Napoli, qualcuno di noi si perdeva, qualcun altro cercava di non mostrare troppo di sé, ma era inevitabile. Non c’erano filtri, eravamo così spontanei. Eravamo anche coraggiosi, ci sentivamo liberi e affamati. Quando parlavamo il cuore ci batteva forte e ci sentivamo considerati. Dovevamo pesare ogni parola e guadagnarci, attraverso il valore di quest’ultime, l’accesso alle menti di chi ci ascoltava. Venivamo presi in considerazione, ascoltati e capiti. Vivevamo il momento, fotografavamo i volti affinché non li dimenticassimo: non volevamo dimenticarci così come non volevamo salutarci per l’ultima volta. In due giorni siamo stati catapultati a capire cosa fosse l’amicizia e chi fossimo noi stessi e non importa la quantità di tempo che abbiamo avuto, perché ci siamo scoperti gli uni con gli altri mettendo a nudo debolezze, fragilità, idee e desideri comuni. Eravamo così affini eppure così lontani. La prima volta che ho preso la parola sentivo il peso di tutto ciò che andavo a dire gravarmi sulle spalle e anche se all’inizio ciò mi aveva terrorizzato, dopo ho incominciato a guardare tutti coloro che mi circondavano negli occhi e la paura è passata. Eravamo stati divisi in gruppi per affrontare temi che avrebbero messo alla prova ogni ragazzo, chiunque fosse. A ogni intervento sentivo l’adrenalina salire e, quando i pensieri che riempivano la mia testa non riuscivano più a rimanere al loro posto, mi sono detta/ho detto: “Giudichiamo chi è diverso perché lo temiamo. Chi sceglierà una strada diversa, allontanandosi dalla massa, si troverà sempre sotto gli occhi di tutti. Diverso non vuol dire sbagliato, così come essere sensibile non vuol dire essere fragile. – poi ho sentito calare il silenzio- Siamo una generazione che si mostra invincibile perché ha paura. Abbiamo paura di essere noi stessi ed esprimerci perché non sappiamo neppure chi siamo, presi troppo dall’apparire piuttosto che dall’essere. Dobbiamo essere sempre perfetti, far vedere a tutti quanto ci divertiamo e nascondere ogni ferita. Dobbiamo essere sempre all’altezza, ma all’altezza di cosa? Nella nostra vita contiamo solo noi e tutti gli altri sono solo gli spettatori della nostra vita. Siamo ottimi attori, sappiamo fingere benissimo. E seppur vogliamo piacere a tutti, davanti al giudizio diciamo di esser sordi. Viviamo troppo veloce e non riconosciamo la linea sottile che divide le nostre due vite parallele: la vita reale e quella che mostriamo a tutti su internet.” E’ stato così che mi sono spogliata per farmi conoscere. Per quanto potessi avere una visione negativa della realtà nella quale vivo, dopo aver conosciuto questo gruppo di ragazzi che mi ha dato tanto coraggio, speranza e sogni in così poco tempo, non posso che esser felice e forse intravedere uno spiraglio di luce lontano. Perché c’è una generazione che non ha paura di farsi sentire, che vuol farsi vedere con tutti i lividi addosso, che non vuole diventare la pedina del gioco di qualcun altro, che è affamata, che non vuole generalizzare, che non si nasconde e che è disposta a rischiare tutto pur di mettersi in gioco. E io vado fiera di farne parte, perché io ho qualcosa da dire! Ho qualcosa da dire a mio fratello, alla mia compagna Alma, al mio amico Henry sull’altra sponda della Manica, a Jamila che ha sognato l’Europa più di quanto lo facciamo noi. Ho qualcosa da dire da qui fino a Bergen, da Tallinn a Favignana Alice Pellegrino III C n.o.